Enogastronomia
PRODOTTI DELLA TERRA
POMODORINO DEL PIENNOLO DEL VESUVIO DOP
Le denominazioni popolari “Fiaschella”, “Lampadina”, “Patanara”, “Principe Borghese” e “Re Umberto” definiscono il prezioso frutto di forma ovale o leggermente pruniforme con apice appuntito buccia spessa, che conservato a grappoli “al piennolo” ne prendono il più noto nome di pomodorino do’ piennolo. Questi frutti gustosissimi sono una ottima base di piatti tradizionali sia di carne che di pesce, essiccati e sottolio. La loro tradizione li vede freschi accompagnati da pane olio e sale.
ALBICOCCHE DEL VESUVIO
Tracce della loro coltivazione nei territori vesuviani esistono già dal IV secolo, ma è nel 1583 che si fanno più precise, quando Giovan Battista Della Porta, scienziato napoletano, le divide in due grandi gruppi: le bericocche (di forma tonda e polpa bianca e molle, aderente al nocciolo) e le chisomele (con la polpa non aderente al nocciolo, molto colorate, soavi e più pregiate). Dai nomi poetici o bizzarri, Boccuccia liscia o Boccuccia spinosa, Vitillo o Pellecchiella, Cafona o Baracca, Prete, Monaco Bella e Palummella, tutte sono conosciute a Napoli come crisommole. L’area vesuviana è una straordinaria miniera di prodotti agricoli di alta qualità e tipicità e le albicocche sono tra i più caratteristici: maturano da fine maggio a fine luglio e le molte varietà si differenziano per dimensioni, intensità del profumo, levigatezza della buccia e sapore, che va dalla straordinaria dolcezza della Pellecchiella – la migliore in assoluto – all’agro amarognolo della Vitillo
CIPOLLA BIANCA DI POMPEI
Cipolla di piccole medie dimensioni, dalla forma schiacciata ai poli e con polpa e guaine esterne bianche con lievi sfumature verdi. Nel territorio dell’Agro Pompeiano, in provincia di Napoli e dell’Agro Sarnese- Nocerino nella provincia di Salerno ne è molto praticata la coltivazione. Si raccoglie in primavera, da marzo a giugno e viene commercializzata in mazzi; per poterne gustare appieno il sapore intenso va consumata molto fresca oppure utilizzata per la preparazione di conserve.
CARCIOFO DI CASTELLAMMARE
Il carciofo di Castellammare, detto anche “violetto di Castellammare” è un carciofo privo di spine, con grandi infiorescenze, rotonde e globose; le foglie commestibili, sono di un colore tendente al rosa che sfuma nel violetto. Questo carciofo tipico della provincia di Napoli, in particolar di Castellammare, è considerato un sottotipo della varietà del “romanesco” ed è famoso per la tenerezza delle brattee (foglie) e il loro colore delicato. Ha una maturazione precoce, infatti si raccoglie tra febbraio e metà maggio, ma già nei mesi di febbraio-marzo si raccolgono le mammarelle, i capolini centrali. La precocità di questo ortaggio è ricordata in diversi manuali di agricoltura risalenti all’epoca borbonica, nei quali viene definito “primaticcio” di Castellammare poiché poteva essere raccolto già in primavera.
PRODOTTI DA FORNO
PASTA DI GRAGNANO
In cima ad una valle, l’altissima qualità della pasta di semola di grano duro di Gragnano affonda le sue radici già nel ‘500. L’ acqua sorgiva, oltre ad alimentare i mulini, conferisce alla pasta un sapore molto caratteristico; il clima caldo, ma ventilato dalla brezza marina, ne favorisce l’essiccazione. Un tempo la pasta veniva essiccata all’aperto, lungo le strade cittadine in condizioni di temperatura ed umidità naturalmente costanti, il che ne garantiva il gusto e la perfetta conservazione. Fu così che nel XVII secolo sorsero i primi pastifici a conduzione familiare, che trasformarono la città in un centro industriale molto rinomato. I pastifici storici, ancora oggi, mantengono fede alle regole produttive di un tempo: semola di grano duro e lavorazione artigianale, con trafilatura in bronzo ed essiccazione naturale.
BISCOTTI DI CASTELLAMMARE
La ricetta di questi gustosi biscotti, creata, nel XIX secolo, da una famiglia di produttori locali, che ne custodirono gelosamente il segreto è avvolta ancora oggi dal mistero. La fantasia popolare, che ha collegato alle tragiche vicende della famiglia i continui rifiuti di venderla, ha contribuito a far crescere l’interesse intorno a questi deliziosi biscotti a forma di sigaro, prodotti e commercializzati al livello industriale secondo l’antica ricetta di farina, zucchero e aromi naturali. Lievitati naturalmente e cotti al forno i biscotti di Castellammare, dalla forma allungata, o ad anellini, o a freselline, ancora oggi vengono impacchettati nella stessa carta azzurra utilizzata dai pastai della vicina Gragnano e si possono mangiare bagnati nella famosissima Acqua della Madonna la cui sorgente si trova nella stessa Castellamare
PANE DI S. SEBASTIANO
Il palatone di San Sebastiano, prodotto genuino e di altissima qualità, mantiene invariate, negli anni, le regole produttive e gli ingredienti utilizzati. Ha forma allungata e altezza superiore alla base, per preparalo si utilizza farina di grano tenero, lievito di birra, acqua, rigorosamente locale e la giusta dose di sale. La farina viene aggiunta al lievito di birra sciolto in acqua tiepida e il composto viene lasciato lievitare per diverse ore, a forme dal mezzo chilogrammo a due kg, poi cotte in forno caldo a legna. Le caratteristiche del pane di San Sebastiano sono la crosta sottile e dorata e la deliziosa mollica bianca, che si conserva fragrante per parecchi giorni. Oltre che nei negozi della zona il pane viene venduto dagli ambulanti la domenica mattina.
TARALLI DI AGEROLA, CON LE MANDORLE ED AL FINOCCHIETTO
La ricetta del tarallo al finocchietto di Agerola, comune in provincia di Napoli porta di accesso alla costiera Amalfitana, si tramanda oralmente di generazione in generazione. L’impasto realizzato con crescito naturale, acqua, farina, finocchietto, pepe e sale viene trasformato, a mano, in ciambelle o treccine lievitate all’aria per circa mezz’ora. Dopo la lievitazione, ciascuna ciambella viene immersa in acqua bollente per circa 2 minuti, prima di essere infornata e confezionata. Una variante alla ricetta originale, anch’essa molto antica, è quella del tarallo alle mandorle sostituendo il finocchietto con burro e mandorle intere o spezzettate, ma uguale nella forma a quello classico, è leggermente più friabile e, grazie alla mandorla, ha un leggero retrogusto agrodolce.
VINI A BACCA NERA
PIEDIROSSO
Localmente detto palummina o per’ e palummo, deve il suo nome al colore che assumono il rachide e i racimoli con l’approssimarsi della piena maturazione del grappolo. In Campania il Piedirosso è secondo per fama e diffusione solo all’Aglianico mentre nella doc Vesuvio assurge al ruolo di protagonista assoluto. Trae splendide e inimitabili espressioni di acidità e mineralità dal terreno del vulcano, ricco di limo, fosforo e potassio e grazie alla sua versatilità offre un ampio ventaglio di possibilità in abbinamento, sia nella cucina di mare sia nella tipica cucina vegetariana, sia con la pasta che con tutte le pietanze a base di pomodoro. Ideale con il ragù. Ha un colore rosso rubino intenso, un aroma fruttato di media intensità, con frequenti spunti minerali, con l’invecchiamento anche erbaceo, speziato e balsamico.
AGLIANICO
L’ultimo a maturare sulle falde del Vesuvio, tra la seconda metà e la fine di ottobre, è l’aglianico, l’aristocratico principe dei vitigni a bacca nera del Sud. Utilizzato in purezza nella igt Pompeiano, può dare prodotti di pregio, soprattutto a seguito di un’attenta maturazione in legno e di un più o meno lungo affinamento in bottiglia. Si abbina a primi piatti complessi e strutturati, formaggi semi-stagionati, cacciagione e secondi di carni rosse. Abbinamento ideale: con il capretto di Sant’Anastasia. Ha un colore rubino intenso con riflessi granato–arancioni dopo l’invecchiamento. Gli aromi ricordano il terreno di provenienza, con riconoscimenti di prugna matura, viola, tabacco, spezie e pepe nero.
OLIVELLA
localmente detto ulivella o livella, perchè ricorda l’oliva sia nella forma che nel colore violaceo, l’Olivella è un vitigno fra i più vecchi della Campania. Sopravvissuto alla devastazione della fillossera, ha una buona resistenza alle avversità climatiche, germoglia precocemente e matura nella seconda metà di ottobre, possiede un basso tenore di zuccheri, non elevati tenori alcolici, per cui viene adoperato principalmente in uvaggio.
Ha un colore intenso, rubino con unghia violacea, talvolta con spuma rossa. Profumo vinoso, sentori fruttati di prugna nera, ciliegia e mirtillo.
VINI A BACCA BIANCA
CODA DI VOLPE DEL VESUVIO
Varietà diffusa esclusivamente nei comuni posti alle pendici del Vesuvio è il primo vitigno in ordine di tempo ad essere vendemmiato ed è principe della doc Vesuvio bianco. Detto caprettone o crapettone probabilmente per la forma del grappolo, simile alla barbetta della capra, o ai pastori che ne intrapresero la coltivazione, possiede note eleganti e non comuni di morbidezza tale da poterlo abbinare sia all’insalata di mare, al polpo in cassuola, sia alla menesta maretata, alle carni bianche e alle zuppe di legumi.
Ideale con il baccalà di Somma Vesuviana.
Matura mediamente nella seconda quindicina di settembre; ha un colore paglierino scarico e possiede aromi delicati di gelso, albicocca e ginestra.
CATALANESCA BIANCA O CATALANA
Da sempre uva da tavola di probabile origine spagnola risulta nella zona vesuviana a partire dal 1500, forse dal ‘400. Attualmente diffuso solo sulle pendici del Monte Somma, si caratterizza per la maturazione molto tardiva (fine ottobre) e per la sua attitudine alla conservazione su pianta. Ha interessanti qualità organolettiche, specie nella forma passita. Nella tipologia secco ha colore paglierino luminoso; gli aromi di frutta matura, banana e ananas, verso i due/tre anni di invecchiamento si arricchiscono di note di miele, magnolia; possiede anche aspetti olfattivi eterei e idrocarburici da “vino alsaziano”.
FALANGHINA
La falernina, l’uva legata alla falange, è il vitigno più diffuso della provincia di Napoli. Sul Vesuvio viene utilizzata principalmente come complementare nel Lacryma Christi, soprattutto nella tipologia spumante, per le sue doti di acidità. Non mancano vinificazioni in purezza nell’igt Pompeiano. Questa varietà ha diverse analogie con la falanghina napoletana dei Campi Flegrei, con cui ha in comune l’acino tondo, ma differisce per la maggior compattezza del grappolo.
Ha buona produttività, costante; matura nella seconda metà di settembre e ha un colore giallo paglierino, profumi delicati di pera matura, mela renetta e fiori di campo.
VERDECA
Il nome Verdeca deriva dalla tipica colorazione delle bacche. Di etimologia analoga ad altre varietà autoctone italiane, fu introdotta in Italia dai Greci, è coltivata soprattutto nella piana tarantina e nelle regioni ioniche. Grazie alla sua bassa gradazione è utilizzato soprattutto per la produzione di vermouth. Sul Vesuvio, dove è presente in modeste quantità, è utilizzata esclusivamente nell’uvaggio del Lacryma Christi bianco. Matura nella seconda metà di settembre ed ha un colore paglierino tenue tendente al verdolino.
GRECO DEL VESUVIO
Il famoso vitigno bianco caratteristico per il grappolo duplicato dal raspo, con ogni probabilità prese le mosse proprio da qui, dalle falde del vulcano, per poi propagarsi nell’entroterra campano. Oggi la progenie, diffusa soprattutto in pochi vigneti vesuviani fra Terzigno e Trecase, differisce sensibilmente dal clone originario e reca acini e foglie più grandi. Matura nella prima decade di ottobre ed ha colore paglierino intenso. All’olfatto ha aromi di agrumi, fiori d’acacia e sentori minerali; con l’invecchiamento miele e mandorle secche.
VITIGNI MINORI
Sul Vesuvio, tra i tanti vigneti, anche di modestissime estensioni e tramandati da generazione in generazione spesso per il solo uso personale, si annidano autoctoni particolarmente rari, come Tintoria o Tintore del Vesuvio, Pagadebito, Suppezza, Surbegna, Suricillo, Castagnara, Catalanesca Nera, Coda di cavallo, Coda di pecora, Grecagna, Lugliesella, Pisciazzella, Uva di Colore, Uva Rosa, Sant’Antonio, San Pietro. Da studi effettuati sul DNAmolti vitigni presentano proprietà organolettiche molto interessanti.